Mi scrive Paola Cotugno, giovane corsista neo-specializzata in Arteterapia in Artedo, e mi parla del suo intervento con la sabbia e con la sabbiera. Mi spiega che nei suoi interventi, tanto in ambito educativo, che riabilitativo e terapeutico come arteterapeuta, intende portare avanti questo campo d’indagine. Le rispondo che, tempo fa, avevo visto in una delle nostre Scuole di Arti Terapie un intervento di Danzamovimentoterapia con l’uso di una piuma, quale oggetto intermediario della relazione, per lavorare sulla capacità di “prendersi cura della fragilità”. E le confermo la pubblicazione di questo suo contributo, al netto dei soliti adattamenti stilistici, per esigenze di coerenza espressiva e narrativa del mio sito. A Paola vanno i miei complimenti per il suo lavoro. Buona lettura.
La sabbia come mediatore
Quest’articolo nasce dalle osservazioni riportate in ambito riabilitativo con un gruppo di ragazzi disabili, contesto nel quale ho avuto modo d’introdurre la sabbia come medium artistico e di relazione.
Gran parte del lavoro ruota intorno a un utente, che chiamerò Giuseppe, le cui disabilità sono talmente gravi da impedirgli di tenere in mano qualsiasi oggetto, compreso ogni strumento grafico-pittorico. Fino al momento in cui ho pensato di utilizzare la sabbia, l’unico modo che avevo per renderlo partecipe all’attività arteterapica era condurre la sua mano sul foglio e dipingere insieme a lui. Da allora, Giuseppe ha cominciato a produrre segni nella sabbia col dito in maniera autonoma, fino ad arrivare a interagire insieme a me nella sabbiera.
Quello che ho raccolto da quest’esperienza, in ambito educativo, riabilitativo e terapeutico, mi ha permesso di capire che la sabbiera ha in Sé delle valenze che la rendono unica nel suo genere:
- da un punto di vista funzionale, è un mezzo che può essere usato in sostituzione del foglio e della penna, poiché agevola il lavoro grafico soprattutto in chi presenta difficoltà fisiche evidenti;
- a livello riabilitativo, rappresenta un ottimo stimolo sensoriale e favorisce la percezione di forme anche in utenti ipovedenti, agevolando perfino la motricità fine e la coordinazione oculo-manuale.
Da un punto di vista terapeutico, la prima caratteristica che colgo è l’impronta materna: la sabbia
- accoglie,
- accetta le manipolazioni,
- si modifica e ci modifica,
- dialoga con chi la tocca,
dando vita ad un processo terapeutico che è tanto automatico quanto inconscio.
La dimensione del gioco
Mettere le mani nella sabbia – a qualsiasi livello lo facciamo, non fosse altro che per sfiorarla – equivale a tracciare un segno grafico e affermare in quel gesto la propria esistenza. È come dire: “sono qui, ci sono e ho valore”. Anche imprimere la forma della propria mano (quante volte ci sarà capitato di farlo sulla spiaggia) è a tutti gli effetti una firma, al pari di quando scriviamo graficamente usando le parole o tracciando un segno sul foglio: è l’impronta con cui il Sé afferma la propria esistenza.
C’è ancora un altro aspetto che mi piace rilevare.
Per la sua configurazione, la sabbia proietta automaticamente chi la usa in una dimensione di gioco. In definitiva, i giochi con la sabbia sono prerogativa infantile per questo ci portano a rivivere, a livello simbolico, l’elemento ludico e creativo.
- Creativo perché la sabbia crea, si trasforma, cambia forma, si plasma e ci plasma in un processo psichico interno molto profondo;
- Ludico perché tutto avviene in una dimensione giocosa, il che permette alle nostre difese consce di abbassarsi e di far emergere la nostra essenza più vera.
La valenza terapeutica della sabbia
Sul piano della valenza terapeutica, rilevo che la sabbia, in quanto materiale destrutturante e disgregante, poco si addice a persone che presentano un IO fragile o con difficoltà di carattere psichiatrico. Ma, se si considera il contenimento che comporta la sabbiera, come luogo fisico che ricompatta e tiene unita la fragilità, comprendo meglio le ricadute positive che ho riscontrato nel corso della mia esperienza.
Grazie alla sabbiera, infatti, i partecipanti possono esplorare lo spazio fisico come quello psichico, grazie a piccoli (e, inizialmente, incerti) movimenti del braccio e della mano: la sabbia scivola, si disgrega ma resta comunque contenuta nello spazio. Resta là. E questo rassicura.
Con persone con disabilità fisiche, solitamente, vengono impiegate sabbiere speciali, a metà tra l’uso educativo montessoriano e quello terapeutico della Kalff. Mentre in queste ultime applicazioni le sabbiere sono di legno e hanno misure predefinite, per il mio lavoro riabilitativo ho optato per contenitori di dimensioni ridotte: scatole in cartone, rinforzate con calamite e aperture speciali, proprio per agevolare il lavoro e la manualità degli utenti. Le sabbiere così strutturate sono più leggere e maneggevoli e, nel caso, possono essere posizionate su vassoi sopra alle sedie a rotelle.
Una lavagna orizzontale
Quelle sabbiere sono diventate per noi, per dirla con Maria Montessori, una sorta di lavagna orizzontale su cui gli utenti hanno potuto
- scrivere,
- cancellare,
- riscrivere,
- interagire,
- entrare dentro,
- immergersi e
- riemergere.
Il che mi ha enormemente facilitato nel mio lavoro: a me spettava solo
- accompagnare,
- ascoltare e
- contenere questo processo.
Sarebbe cambiato poco se l’intervento, invece di una finalità riabilitativa (con il chiaro intento di riabilitare le capacità di interazione grazie ai mezzi creativi), avesse avuto finalità educative o terapeutiche. Tutto sta nel garbo e nella delicatezza del terapeuta che si prende cura della fragilità con materiali fragili e delicati. Insomma, si parte sempre dall’uso consapevole e cosciente del medium creativo (la sabbiera e la sabbia che vi è contenuta): il resto lo fanno gli utenti che ci giocano.
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