Insegnare, oggi più che mai, significa trasmettere la conoscenza, intercettando ogni fattore di disturbo (oggettivo, soggettivo, psicologico, emotivo, affettivo, culturale) che si viene a frapporre tra chi trasmette (il docente) e chi riceve (l’alunno, il gruppo, la classe). Le “intercettazioni” di cui c’è bisogno non possono, tuttavia, essere sporadiche o episodiche: dovranno, piuttosto, essere continue, efficaci e preventive. Senza questa consapevolezza, continueremo a cercare fuori le soluzioni che dovremmo cercare dentro.
Il malessere dei ragazzi
Intanto, ecco quello che accade dall’altra parte della barricata:
- aumentano i casi di bullismo,
- le ragazze diventano anoressiche o bulimiche,
- molti iniziano a bere in età molto precoce e assumono anche sostanze stupefacenti,
- i giovanissimi sono indisciplinati e provocatori…
Casi difficili, storie particolari.
Ma questi “nuovi disagi” (la droga, l’alcol, l’anoressia, la bulimia, la dipendenza da Internet, il bullismo, gli atti vandalici), di cui siamo già occupati in più occasioni, che cosa sono, in fondo, se non il risultato di una difficoltà o di una totale incapacità di
- identificare,
- gestire e
- modulare le proprie emozioni?
Compito dei genitori
“Ma spetta ai genitori insegnarle ai figli, fin da piccoli”, potranno eccepire i più. E in parte è vero. È a questo, in fondo, che serve il continuo gioco di rispecchiamento del bambino con la mamma e con le altre figure adulte affettivamente significative. I bambini così imparano
- a distinguere gli stati d’animo,
- a percepire le emozioni,
- a contenerle,
- a modularle e
- a gestirle.
Con il gioco del rispecchiamento, soprattutto, imparano a trasformare gradualmente le pulsioni in emozioni e in modalità di comportamento più adattive. Questa operazione educativa richiede, però
- vicinanza,
- contenimento,
- presenza e
- tempo:
tutte caratteristiche che al giorno d’oggi scarseggiano nel rapporto genitori-figli.
L’educazione emotiva
All’interno di questa scarsità, i figli tentano di crescere come possono ma spesso non ce la fanno.
- Le emozioni rimangono pulsioni,
- le comuni sensazioni (paura, noia, tristezza, rabbia, frustrazione) vengono vissute come pericolose e angoscianti (e, quindi, se possibile rifuggite, evitate o negate),
- la progettualità e il desiderio non decollano, precipitando, nella chiusura, nell’omologazione, nelle identificazioni acritiche.
Di lì a poco, con l’ingresso nell’adolescenza, i ragazzi si scontreranno duramente con le proprie difficoltà, scegliendo anestetici vari e traiettorie di avventure pseudoemozionali. Prima che tutto ciò avvenga, i figli, nel diventare alunni, hanno la possibilità di recuperare a scuola le loro difficoltà, sempre che la scuola sia disposta a dare opportunità in tal senso.
Si tratta di opportunità di ascolto, crescita e contenimento organizzate in modo efficace. I docenti dovranno approntare metodologie educative finalizzate non solo alla trasmissione delle nozioni, ma anche allo sviluppo di quelle competenze affettive ed emotive senza le quali non è possibile alcun insegnamento e alcuna crescita.
La risposta delle famiglie
Quello che deve essere chiaro, intendo dirlo a chiare lettere e una volta per tutte, è che l’insegnamento è compito della scuola (e che, se non funziona, va ricercata all’interno della relazione educativa ogni inefficienza) ma anche che esso non può prescindere dalla collaborazione della holding educativa.
In altre parole, serve l’aiuto delle famiglie e una sufficiente assunzione di responsabilità che faciliterebbe il lavoro della scuola.
Davanti a tutto ciò, qual è la qualità del dialogo con le famiglie? Spesso, va detto, il dialogo è molto difficile. Oppure, non c’è affatto dialogo ma solo atti d’accusa. Le risposte dei genitori sono, in genere,
- molto vaghe,
- elusive,
- superficiali,
- disarmanti,
il più delle volte piene di livore e risentimento, tese a minimizzare.
Educazione condivisa
Benché ciò sia in parte umanamente comprensibile, questo è l’atteggiamento che nuoce di più ai ragazzi. Occorre, infatti, provare, con fermezza e continuità, a convincere la famiglia dell’assoluta necessità di incontrarsi e collaborare per scoprire insieme le cause delle condotte disfunzionali e inadeguate degli alunni cercando di rimuoverle attraverso un programma educativo condiviso.
Se i genitori sono ancora titubanti o resistenti, conviene
- attivare ogni arma tesa a dimostrare la volontà di ascolto,
- prima di insistere con l’affermazione della necessità di un intervento congiunto e condiviso per affrontare la situazione.
È necessario, ovviamente, anche rassicurare che la collaborazione non implica giudizio, vergogna o etichettamento e che solamente collaborando l’alunno non si sentirà giudicato, diverso o escluso, ma avrà la percezione che gli adulti si stiano interessando a lui e ai suoi vissuti di discontinuità.
Serve più ascolto
Certo, alcune famiglie sono fortemente oppositive e disfattiste. Significa che la scuola deve compiere uno sforzo maggiore per comprendere fino in fondo il malessere che friziona il dialogo: la posta in gioco è troppo alta e ne vale davvero la pena. Esistono anche genitori che negano categoricamente qualsiasi problema del figlio. Negano
- per difendersi,
- per non sentirsi delusi dal fallimento delle proprie aspettative e
vivono le osservazioni degli insegnanti come ferite, attacchi da respingere ed evitare a ogni costo. Con queste famiglie occorre grande pazienza per costruire una rete di rapporti ravvicinati e rassicuranti. Ma è l’unico modo per capire e aiutare i ragazzi a superare le difficoltà, il disagio e le condotte disadattate che limitano la formazione di futuri cittadini consapevoli.
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