Sono tre gli ingredienti principali che alimentano il processo creativo: saper pensare creativamente, riuscire a collegare più cose, contenuti, informazioni distanti, o apparentemente distanti, tra loro e possedere una specifica competenza del campo a cui si intende applicare il risultato dello stesso processo creativo. Ecco il passaggio del mio discorso agli Arti Terapeuti, tenuto a Cefalù a “Isola Creativa 2019”, nel corso del XVII Congresso Annuale di Artedo, sulla ricetta della creatività di Henri Poincaré (nella foto), con i riferimenti alla mia storia personale che, dopo vari percorsi, mi ha portato sulla strada delle Arti Terapie e dell’Intelligenza Emotiva.
La ricetta della creatività
- Al primo posto, dunque, troviamo la capacità di vedere al di fuori degli schemi, spesso imposti dalla cultura dominante o autoimposti.
- La capacità di collegamento che segue la spiega benissimo Gianni Rodari. Nelle scuole il famoso scrittore faceva fare ai bambini un gioco: con due parole differenti e distanti (ad esempio, cane e premio Nobel) l’una dall’altra proponeva di creare una storia che le comprendesse entrambe. Collegare significa mettere in pratica il processo creativo e, in definitiva, saper pensare! Serve passione, entusiasmo. E l’entusiasmo è qualcosa che o ce l’hai o non ce l’hai. Passione vuol dire avere un’intrinseca motivazione a fare quello che facciamo: alzarsi ogni mattina come se avessimo una missione da compiere, prima ancora di un lavoro. Questo crea una motivazione intrinseca che va al di là dei risultati, che pure verranno nel tempo (ma non necessariamente subito).
- In relazione alla competenza specifica in un dato settore, mi sento di dire che una persona non può essere illimitatamente creativa: uno è creativo sempre nel proprio campo. Nessuno è creativo e basta, visto che esistono molte forme di creatività.
Questo significa che, se io non ho idea di come si esegua tecnicamente un gesto atletico, non avrò mai un’idea creativa che mi porti a ottimizzare un movimento per risolvere, mettiamo il caso, un problema legato a un impedimento soggettivo. Ma il calcio non è il mio mondo. E, poiché non ho idea di come si esegua un gesto tecnico di tipo calcistico, a me non verrà mai un’idea creativa che si possa adattare a un campo che mi è estraneo.
Niente nasce da niente
Per la stessa ragione, quando oggi qualcuno, specie tra gli insegnanti con cui lavoro più spesso, viene da me e mi chiede: “Come posso fare qualcosa con Intelligenza Emotiva per aiutare le persone a sviluppare una data competenza?” (Il discorso vale soprattutto per gli insegnanti che mi chiedono come fare lezione in classe valorizzando le emozioni per ottimizzare gli apprendimenti), io rispondo: “Se ci pensi, lo sai già. Io posso solo darti i mezzi creativi da utilizzare per farti le giuste domande in base alle quali tu troverai delle risposte e i modi a te più congeniali per raggiungere i tuoi obiettivi. L’esperto nel tuo campo sei tu.”
Come posso, in fondo, spiegare a un insegnante di italiano come svolgere il suo lavoro con Intelligenza Emotiva? Dovrei conoscere tutto il programma di italiano. Cioè, l’insegnante dovrei essere io. Ma il mio è un compito diverso: offrire mezzi creativi per utilizzare in modo nuovo le stesse conoscenze.
A metà del 1800, il matematico Henry Poincaré diceva : “Niente nasce da niente”. Ed essendo un matematico ha realizzato una formula della Creatività: “C= NU”, ovvero creatività come prodotto tra ciò che è nuovo e ciò che è utile. Tante cose sono utili e a volte sono anche nuove. Spesso però sono solo stravaganti e non risolvono i problemi della gente. E nel processo creativo la valutazione sociale è determinante, poiché è il pubblico che deciderà se una cosa possa servire oppure no.
La mia storia creativa
Vi racconto la mia storia.
Qualche tempo fa, nelle serate trascorse in macchina con amici, più di qualcuno mi chiedeva di farmi venire “l’idea” che avrebbe rivoluzionato le nostre vite. E, in verità, qualcuna mi venne. Nel 1992, ad esempio, sei anni prima della nascita del più importante motore di ricerca in internet, scrissi un progetto che si chiamava “Information & Brokers” che era l’attuale Google. Ma non sapevo bene anche a cosa sarebbe servito. Cioè, non avevo le competenze per realizzarlo.
A quel tempo, io, venticinquenne, facevo tutt’altro. Ero un agente generale di assicurazioni, un consulente assicurativo specializzato nella previdenza privata. Per contenere i costi, condividevo l’ufficio con un amico che si occupava di promozioni per grandi brand. Un giorno ricevette dei notebook Olivetti, i primi in assoluto tra i portatili. O, almeno, erano i primi che io vedevo.
Me ne prestò uno. Quando mi chiamò per dirmi che me lo aveva lasciato nella sua stanza, lo trovai appoggiato sopra a un giornale di annunci: il “Cerco Lavoro” della mia città. Mi venne subito l’idea di trasferire in quella macchina il contenuto di quella rivista e di metterlo nella disponibilità di tutti. “Te lo immagini se facciamo questo per tutti i giornali, le enciclopedie, i libri… è una rivoluzione!” La mia idea era chiarissima: creare qualcosa alla quale tutti si potessero collegare per avere accesso a tutte le informazioni.
A che serve?
Solo un anno prima era uscito il protocollo “www”. Quindi, internet si apprestava a diventare patrimonio di tutti. Per questo proposi a Silvio (è così che si chiama il mio amico) di cercare dei finanziamenti per realizzare il progetto che nel frattempo avevo scritto in quel piccolo notebook.
Ma lui mi gelò con un netto: “Ah, e a che serve? Cioè, perché dovremmo cercare finanziamenti per mettere in rete qualcosa che non sappiamo a che serve, a chi serve e se avrà un futuro?”
In quel momento credo avesse ragione, perché io non avevo le risposte a quelle domande, a parte un grande entusiasmo per quell’idea che sentivo essere il futuro. Io avevo visto in quel progetto qualcosa di straordinariamente interessante ma non sapevo da dove iniziare.
Per questo l’idea restò per sempre in quel notebook che qualche giorno dopo gli restituii.
Dalla creatività al genio
Perché qualcosa di creativo possa diventare qualcosa di geniale, deve essere utile, deve piacere agli altri. Ma, oltre ai tanti dubbi sulla questione dell’utilità, io non avevo le competenze per realizzarlo.
Il progetto, quello stesso mio progetto, poi vide la luce e diventò famoso nel 1998 con il nome di Google. Mi considero, dunque, il precursore della più grande azienda della storia? No di certo. Perché, dopo averla partorita, non ci ho creduto.
Ma mi è rimasta (almeno credo e spero) la vena creativa che mi ha portato qui. E non è poco. Vuol dire che doveva andare così.
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