La curva dell’apprendimento nella scuola italiana è drammaticamente precipitata negli ultimi decenni. Oggi, aggirandosi tra i corridoi e nelle aule di scuole e università, sembra che insegnanti e studenti non abbiano più nulla d’interessante da raccontarsi. Persone stanche, rassegnate e demotivate soprattutto tra gli insegnanti, che negli anni ’80 sedevano dietro a quegli stessi banchi. Inizia, infatti, con l’indagine del 1976 dell’illustre linguista Tullio De Mauro (nella foto) la ricerca sull’apprendimento e la conoscenza della lingua italiana nella nostra scuola. Su 427.000 vocaboli, di cui 47.000 di lessico comune e 6.500 parole d’uso comune, i ragazzi ne conoscevano appena 1500. La stessa ricerca, ripetuta a metà degli anni ’90, attesta il declino che oggi commentiamo come una sorprendente novità: il numero dei vocaboli conosciuti era sceso a 600. A distanza di soli vent’anni quasi 900 parole svanite nel nulla.
Emozioni “scomparse”
Le parole scomparse dal vocabolario dei nostri ragazzi, a giudicare dal clima di conflitto imperante, sono quelle che parlano di emozioni e sentimenti. Quando, infatti, non si sa dire quello che si prova, perché manca la parola per esprimere lo stato d’animo, cade ogni filtro all’azione. Così, l’impulso viene agito, solitamente in modo distruttivo, aggressivo. Senza contare che le emozioni esercitano un ruolo decisivo nei processi di apprendimento.
Quando qualcuno che ci spiega qualcosa ci fa emozionare, ci fa vivere e vedere una data situazione, apprendiamo di più e meglio. Se, per di più,
- ci sorride,
- ci infonde la fiducia e
- la sicurezza
necessarie per desiderare di richiamare al cuore (significa questo, letteralmente, il verbo ri-cordare) quelle informazioni. Che vorremmo, invece, dimenticare, se sono associate a
- frustrazione,
- punizioni,
- umiliazioni.
Gli insegnanti e la scuola
Che età hanno gli insegnanti italiani? Secondo i dati OCSE 2011, il 47% degli insegnanti delle elementari e medie (fascia 6-13 anni) ha più di cinquant’anni. Alle superiori, gli ultracinquantenni sono circa il 61%. Cioè, i ragazzi su cui condusse l’indagine De Mauro erano in classe in quegli anni. Oggi sono abilitati all’insegnamento e conoscono bene la loro disciplina. Ma hanno appreso com’è stato loro insegnato. E allo stesso modo insegnano ai loro studenti.
Come si può credere che, senza aver cambiato nulla in questi quarant’anni, le cose potessero migliorare? Giusto, allora, essere alle prese con un fallimento annunciato.
La messicanizzazione in atto
L’analisi impietosa (ma vera, purtroppo) è di Alberto Forchielli che, nel libro “Muovete il culo– Lettera ai giovani perché facciano la rivoluzione in un Paese di vecchi”, parla di un processo di messicanizzazione che interessa l’Italia, per via delle forti contraddizioni del nostro Paese.
Perché, tuttavia, le cose possano cambiare, serve crederci. Anche per tutti quegli insegnanti che sfuggono a questa statistica. Perché, infatti, i ragazzi possano apprendere diversamente, occorre che si insegni loro in modo diverso.
Quello che è stato finora ha drammaticamente fallito. Questa è la verità.
Emozioni per apprendere
Serve, quindi, riformare l’apprendimento per avere un futuro diverso da quello che sembra già scritto.
Ed ecco a che serve (o a che servirebbe, se il messaggio giungesse agli insegnanti) l’inserimento
- dell’empatia,
- della scienza del sé o
- dell’intelligenza emotiva tra le materie curricolari.
E se gli insegnanti vivono un malessere, bisogna insistere per il loro benessere, poiché da loro dipende il futuro del nostro Paese.
“Bisogna insegnare con le emozioni”, si sente dire in coro. Mi associo anch’io. Ma come può un insegnante parlare di emozioni e insegnare con le emozioni se non le conosce o, peggio, se sta male?
Ancora, come possono essere chiamati ad innovare, a cambiare le cose gli insegnanti, sottopagati, stressati, tartassati?
- Quanta voglia di aggiornarsi hanno, dunque, i nostri anziani insegnanti?
- Aggiornarsi per acquisire modi diversi d’insegnare?
- Perché mai?
- A che pro?
Il “come” vale di più del “che cosa”
In fondo, come afferma Thomas Gordon, “poco conta che un insegnante insegni latino, greco, matematica, storia o geografia. Sarà sempre il modo che farà la differenza. Tutte le materie possono diventare divertenti ed entusiasmare se l’insegnante possiede la giusta modalità”. Perché ogni apprendimento è correlato alle emozioni che si associano all’insegnamento.
Erogare qualsiasi informazione passivamente e attendersi che tutta la classe la impari per ottenere la sufficienza e superare l’anno scolastico è il più grande fallimento della conoscenza. Che è l’unica cosa che conta. Altro che titoli e pezzi di carta!
La new economy, d’altro canto, ha modificato le regole del mercato del lavoro. E richiede autonomia, libera iniziativa e senso di responsabilità. Ciò a cui la scuola non prepara e che determina lo stato di vetustà della scuola (al temine della quale, un tempo, si trovava facilmente lavoro).
La scuola dell’intelligenza emotiva
Pertanto, nel momento in cui ci accorgiamo che questa autonomia di fatto non c’è nel popolo dei nerd e dei giovani adulti che vogliono entrare nel mondo produttivo, appare chiaro che l’ascensore sociale di cui stiamo parlando deve ricostruirsi dalle fondamenta.
Se questo accadrà, dipenderà soltanto dalla comprensione che le sorti dell’economia nazionale e, di riflesso, del mercato del lavoro, dipendono da una preparazione umanistica dei nostri ragazzi più che scientifica, dunque, relazionale prima che tecnica. L’unica che si occupa della comprensione delle umane faccende che
- infondono fiducia,
- alimentano le motivazioni e
- producono il senso di responsabilità che oggi manca.
A me piace chiamare tutto questo « visione dell’oltre », la capacità di mettere insieme le informazioni disponibili e modificare lo stato delle cose a partire dalla formazione scolastica. A me piace sognare la scuola dell’intelligenza emotiva.
0 commenti
Trackback/Pingback