Perché la gioia è così fugace, mentre la tristezza può durare tanto a lungo? Attimi come ore, giorni… Vite intere, certe volte. Siamo programmati per evoluzione a perseguire la gioia e la felicità. Abbiamo bisogno degli stati d’animo piatti e bui per ricordare a noi stessi quanto sia bello esplodere di gioia. E’ il nostro cervello che deve rinnovarsi il piacere della felicità, procurandosi le scariche di dopamina per inseguire l’attimo che verrà. Quello gioiso. E’ un codice innato che lega indissolubilmente quelle che, comunemente, vengono considerate emozioni opposte, “emozioni contro“. La gioia, infatti, non esisterebbe senza la tristezza. E la tristezza non avrebbe senso, se non evolvesse nella gioia. Approfondiamo la conoscenza di queste due emozioni con un momento lirico, liberamente tratto da “Le parole che ci salvano” di Eugenio Borgna che ha ispirato la mia conferenza omonima per imparare a comunicare con intelligenza emotiva.
La gioia
La gioia di un attimo non è la felicità. La felicità è più sfumata, contenuta, vigile, consapevole, razionale. La felicità anela alla gioia. Ma la gioia è un picco: un’emozione impalpabile, delicata e fragilissima. Un’emozione che vive nel presente. E’ l’immagine più luminosa di cui è capace la nostra interiorità, poiché dipende sempre da una condizione dello spirito. Non viene dall’esterno. Nasce e muore dentro di noi, nell’arco della stessa giornata, proprio come una rosa. E, per questo stesso motivo, evanescente e fragile.
Facilmente, dunque, si arrende sotto i colpi dell’indifferenza e della parola arida, estrema, offensiva. La parola di chi non ha attenzione sufficiente a cogliere e valorizzare un momento di gioia delle persone. Come tutte le emozioni che possiedono una indescrivibile leggerezza, anche la gioia fa riflettere sul mistero della condizione umana e sull’intrinseca fragilità della stessa.
Per questo, la gioia deve essere e restare sfuggente. E non deve essere affatto facile raggiungerla, trattenerla. Non deve essere facile neanche proteggerla dagli attacchi degli altri. Se lo fosse, la ricerca di essa si svuoterebbe di valore ed essa stessa perderebbe la sua preziosità.
Ci vogliono, allora, cura, dedizione, attenzione e amor proprio per coltivare la gioia. Solo così la vedremo sbocciare anche negli altri.
La tristezza
La tristezza è l’esperienza di vita che conosce solo chi tocca gli abissi della propria anima. Gli stessi abissi che rendono fragili e indifesi, che ci fanno soffrire crudelmente. Quando la tristezza (che è invisibile agli occhi che non siano bagnati di lacrime) vive nella nostra anima, ogni nostra certezza cade. Ogni sicurezza si dissolve.
Come altre esperienze di vita incrinate dalla fragilità, anche la tristezza è facilmente ferita dalla solitudine, dall’abbandono, dalla noncuranza, dall’indifferenza. Al pari della gioia, essa è delicata, vulnerabile, friabile ed esposta alle ferite che nascono dentro o che, il più delle volte, arrivano dal mondo fuori. Dov’è, allora, la differenza tra le due? Va combattuta la tristezza per poter amare la gioia? O va amata anche la tristezza, perché ci rende umani e fragili, perché si possa anelare alla gioia?
Bisogna ascoltare anche la tristezza, dunque. Ma ascoltare la tristezza vuol dire prendersene cura, fare in modo che chi vive questa condizione non cerchi rifugio nella solitudine. Per proteggersi o per non essere più di peso agli altri. Perché è parte della vita. E portatrice di creatività. O non è forse vero che le grandi opere artistiche sono nate dal dolore e dalla sofferenza di tanti uomini d’ingegno che hanno amato a tal punto la propria condizione dell’anima da volerla condividere con noi?
La malinconia
Non c’è, infatti, solo una tristezza-malattia, tipica di talune umane condizioni, in cui l’esistenza stessa si tramuta in dolore. Ce n’è una che appartiene a tutti e che tutti, in un modo o nell’altro, prima o poi, sperimentiamo: la malinconia. Entrambe, voce di un’anima appesantita e delicata allo stesso tempo, facile a lasciarsi ferire e offendere, hanno bisogno delle parole che fanno bene. Le nostre o quelle di chi ci è più vicino. Ogni cosa diventa fonte di dolore per chi vive la tristezza.
Quali parole vorremmo, allora, che i nostri affetti avessero per noi? O di quali silenzi avremmo bisogno, se siamo tristi?
Ecco: con le stesse parole possiamo aiutare gli altri a risolvere la propria fragilità. Il mondo ha bisogno di gentilezza.
Buongiorno.
Sono Simone Guslandi. Sono di Monza, ho 45 anni, e sono un libero ricercatore di filosofia morale, di filosofia politica e filosofia delle religioni. Ho pubblicato nel 2014 un saggio teoretico intitolato “La gioia”.
Vi disturbo perché ho trovato interessante il vostro articolo sulla “gioia”, trovato su internet. Infatti ogni tot faccio una ricognizione sulla rete per vedere se c’è, oltre a qualche nuovo articolo o contributo, soprattutto qualche nuovo saggio anche su questo argomento: però non ne trovo mai.
Perciò vi scrivo anche, magari, per stabilire un contatto vicendevolmente proficuo sotto il profilo culturale, nonché per segnalarvi questo mio saggio su questa emozione fondamentale, che inserisce vostri interessi. Sul mio sito http://www.simoneguslandi.it, che è da aggiornare, se ne trovano sintetiche notizie introduttive.
Lieto se ciò possa interessarvi, vi rivolgo i più cordiali saluti.
Professor Guslandi
Buonasera. Trovo solo ora questo suo commento che mi era completamente sfuggito. Me ne scuso e La ringrazio molto. Le lascio il mio numero per eventuale contatto: 392.1153221.
Cordialmente
SC